In cammino verso un sistema alimentare sostenibile

Il nuovo rapporto di Oxfam “In cammino verso un sistema alimentare sostenibile” presenta un aggiornamento della pagella con cui si valuta la sostenibilità sociale e ambientale delle 10 più grandi multinazionali del cibo e fa un bilancio dei tre anni di campagna.

A febbraio 2013 Oxfam ha lanciato la campagna Scopri il Marchio per sfidare le “Dieci Grandi Sorelle del Cibo” sulle politiche e sulle pratiche di sostenibilità sociale e ambientale lungo la filiera di produzione, e per amplificare in modo critico la voce di soggetti chiave quali produttori agricoli, comunità locali, consumatori e investitori che chiedono a queste aziende di agire per il cambiamento.
Le dieci grandi sorelle del cibo in questi tre anni hanno adottato nuovi impegni di ampia portata volti a migliorare gli standard di sostenibilità sociale e ambientale lungo la catena di produzione. Ora, queste grandi multinazionali devono assicurare che i loro fornitori adeguino effettivamente le loro pratiche
coerentemente agli impegni assunti. E per accelerare la trasformazione verso un sistema alimentare più sostenibile, le aziende devono spingersi ancora oltre, adottando nuovi modelli di business nella loro filiera così da assicurare maggior potere ed una più equa distribuzione dei profitti con i produttori e i
lavoratori che forniscono loro la materia prima.

Le pagelle di Scopri il Marchio si focalizzano sull’analisi comparata delle politiche aziendali di dieci multinazionali del cibo – Unilever, Coca-Cola, Pepsi, Nestlé, Danone, General Mills, Kellogg’, Mars, Mondelez e Associated British Food – attribuendo loro un punteggio su scala da 1 a 10 a ciascuna delle seguenti aree tematiche: trasparenza, terra, acqua, cambiamento climatico, produttori agricoli, lavoratori agricoli e donne.

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Leggi l’articolo su oxfamitalia.org: A 3 anni dal lancio di “Scopri il Marchio” è tempo di bilanci

Scarica qui il rapporto “In cammino verso un sistema alimentare sostenibile

Visita il sito di “Scopri il Marchio

Parroco contro Parmalat, vende formaggi. Azienda boicottata perché non compra più da produttori genovesi

unnamedUna vendita di formaggi davanti alla chiesa per sostenere i produttori di latte genovesi dopo che Parmalat ha deciso di non rinnovare loro il contratto di acquisto: i produttori hanno rifiutato l’accordo a 25 centesimi a litro. L’iniziativa è di don Valentino Porcile, parroco della chiesa della Santissima Annunziata di Sturla che “tra domani e dopo domani si recherà a Rossiglione a conoscere tre caseifici”.
“Sabato e domenica – ha spiegato – in chiesa daremo un assaggio del loro formaggio, venderemo alcuni pezzi e prenderemo le prenotazioni per altro formaggio. Ma già la prossima domenica o quella ancora dopo arriveranno gli allevatori in parrocchia a vendere”. “L’iniziativa – ha detto don Porcile – che arriva dopo l’invito al boicottaggio dei prodotti Parmalat, serve per sostenere gli allevatori”. I produttori di latte genovesi, dopo l’intervento di Regione e Comune, hanno trovato un accordo per vendere, per il momento, il latte al Caseificio Pugliese di Lauriano (Torino), pare a 29 centesimi a litro.
(fonte: ANSA.it, Genova 13 aprile 2016)

Salviamo la nostra madre Terra! Custodiamo l’acqua e coltiviamo il sole!

Salviamo la nostra madre Terra!

Custodiamo l’acqua e coltiviamo il sole!

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Digiuno e preghiera in Piazza S. Pietro (Roma)

sabato 2 aprile 2016 (dalle 12.00 alle 15.00)

Laudato si’! La bella enciclica di papa Francesco invita con forza tutta l’umanità a custodire la casa comune che è sorella e madre terra, mediante il mandato biblico del “custodire e coltivare” il giardino del mondo (LS 67).

Papa Francesco denuncia con forza i gravi problemi che stanno inquinando e degradando questa grande opera di Dio, che ci è stata data come dono e che rischiamo di consegnarla alle nuove generazioni come veleno. Due sono i clamori, secondo l’enciclica, che dobbiamo ascoltare e che esigono il cambiamento di rotta: il grido della terra e dei poveri.

Questa sorella protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi. Per questo, fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e devastata terra, che «geme e soffre le doglie del parto» (Rm 8,22). Dimentichiamo che noi stessi siamo terra (cfr Gen 2,7). Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora” (Laudato si’ n. 2).

Laudato si’ dichiara, per ben 21 volte, che il nostro stile di vita è insostenibile e che bisogna puntare su un altro stile di vita (cap. VI), facendo richiesta, almeno 35 volte, di nuovi stili di vita che devono essere vissuti a tre livelli: personale, comunitario e politico.

Papa Francesco convoca tutta l’umanità a custodire con forza i beni di sorella madre terra, come l’acqua, dedicando addirittura 5 numeri dell’enciclica (LS 27-31): “Mentre la qualità dell’acqua disponibile peggiora costantemente, in alcuni luoghi avanza la tendenza a privatizzare questa risorsa scarsa, trasformata in merce soggetta alle leggi del mercato. In realtà, l’accesso all’acqua potabile e sicura è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la sopravvivenza delle persone, e per questo è condizione per l’esercizio degli altri diritti umani” (LS 30).

Purtroppo, il nostro governo italiano sta facendo scelte politiche verso la privatizzazione dell’acqua, affossando così il voto popolare del referendum del 2011 che si era manifestato contro la privatizzazione dell’acqua. Infatti, nell’ultima Legge di Stabilità si favoriscono esplicitamente le privatizzazioni, incentivando gli enti locali a cedere quote di partecipazione detenute in aziende di servizi pubblici. Inoltre, proprio in questi giorni, nella Commissione Ambiente della Camera, dove si sta discutendo la legge di iniziativa popolare per la ripubblicizzazione dell’acqua, che nel 2007 aveva avuto oltre 400.000 firme ed è finalmente approdata ora nelle Camere, c’è stato un blitz da parte del governo Renzi-Madia, facendo approvare un emendamento che abroga l’articolo 6 del progetto di legge di iniziativa popolare, eliminando così il cuore della legge che obbligava la gestione pubblica dei servizi idrici.

Laudato si’ affronta anche il problema dell’energia fossile: “Perciò è diventato urgente e impellente lo sviluppo di politiche affinché nei prossimi anni l’emissione di biossido di carbonio e di altri gas altamente inquinanti si riduca drasticamente, ad esempio, sostituendo i combustibili fossili e sviluppando fonti di energia rinnovabile. Nel mondo c’è un livello esiguo di accesso alle energie pulite e rinnovabili. C’è ancora bisogno di sviluppare tecnologie adeguate di accumulazione” (LS 26).

Nonostante la richiesta dell’ONU e di tante altre istituzioni autorevoli di abbandonare le energie fossili e puntare sulle energie rinnovabili, il nostro governo italiano è ancora intestardito sulle energie fossili, autorizzando le trivellazioni sui mari per raccogliere misure esigue di gas e petrolio, anche se l’Italia si è impegnata alla Conferenza sul clima di Parigi 2015, Cop21, di sostenere le energie rinnovabili per uscire da quelle fossili. Purtroppo, il governo Renzi non ha ancora calendarizzato la discussione in Parlamento per la firma dell’accordo di Cop21. Così, l’Italia rischia di non esserci il prossimo 22 aprile a New York, quando le nazioni del mondo si ritroveranno per la firma dell’accordo.

Ecco quindi l’importanza del referendum popolare del 17 aprile per poter bloccare le trivellazioni sui mari, spingendo il nostro paese ad impegnarsi a coltivare il sole senza più buchi nell’acqua.

Laudato si’ convoca tutta l’umanità a sentire una grave responsabilità verso il creato come l’opera di Dio e il giardino del mondo, nel custodire e coltivare la terra, l’acqua, l’aria e tutti gli altri doni di Dio Creatore.

Impegniamoci quindi:

  • a custodire l’acqua come bene comune lottando contro ogni forma di mercificazione e privatizzazione. Facciamo rispettare la volontà popolare del referendum sull’acqua del 2011, invitando i comuni alla gestione diretta della propria acqua, come ha fatto Napoli, passando da S.P.A. ad azienda speciale;

  • a coltivare il sole per valorizzare la grande potenzialità dell’energia solare, senza più fare buchi nei mari e nel suolo per estrarre le energie fossili che sono altamente inquinanti. Partecipiamo quindi al referendum del 17 aprile contro le trivellazioni dei mari e della terra. Il petrolio deve rimanere sotto terra.

Come abbiamo fatto in occasione del referendum sull’acqua, invitiamo tutti gli uomini e le donne che si sentono missionari(e) del Creato a trovarci in Piazza San Pietro, a Roma, sabato 2 aprile 2016 alle ore 12:00, per fare digiuno, preghiera e condivisione, mettendoci in comunione con tutta la creazione e con il suo Creatore, in modo da ritrovare la forza e il coraggio di custodire “nostra sora madre terra“.

Padova – Napoli, 16 marzo 2016

Adriano Sella, missionario del creato e dei nuovi stili di vita

Alex Zanotelli, missionario comboniano

SOTTOSCRIVI L’APPELLO ONLINE SU CHANGE.ORG

Plasmon toglie l’olio di palma dai biscotti per bambini. Un risultato importante che dimostra l’efficacia della pressione dei consumatori

Biscotto-Plasmon-olio-di-palma-senza-Dopo decine di lettere inviate da mamme e papà indignati per la presenza di olio di palma nei biscotti Plasmon, una petizione online su Change.org e il nostro racconto di una mamma arrabbiata perché non ha mai avuto risposte dall’azienda sul tipo di olio vegetale usato nei biscotti, oggi Plasmon ha deciso di dire stop all’olio tropicale, creando addirittura un pagina web dedicata.

 

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L’Italia non si trivella

Se non fermiamo le trivelle, il mare finirà nelle mani dei petrolieri.logo

Sì, perché puntare tutto sulle poche gocce di petrolio presenti sotto i nostri fondali vuol dire condannare il Paese alla dipendenza energetica dalle fonti fossili e dall’import, danneggiare il turismo, la pesca e le economie costiere, penalizzare le fonti rinnovabili. Affidarsi ai petrolieri vuol dire non far crescere l’occupazione, tenere le casse pubbliche a secco, smentire gli impegni che l’Italia ha preso dinanzi al mondo intero per la salvaguardia del clima. È un fallimento certo.

Sosteniamo da anni che trivellare i nostri fondali in cerca di petrolio è una pazzia che conviene solo a pochissimi, e in nessun modo alla comunità: il governo sta svendendo la bellezza del nostro Paese e i suoi mari per pochi spiccioli, perché le nostre royalties sono tra le più basse al mondo.

Per spiegare l’inutilità e il danno delle trivelle abbiamo solcato i nostri mari, da Genova a Trieste; abbiamo manifestato al fianco delle popolazioni locali contro i progetti che minaccia[va]no i loro litorali; abbiamo incontrato cittadini, amministratori, movimenti. Abbiamo occupato per giorni una piattaforma petrolifera e protestato persino dentro al Parlamento, mentre si votava lo Sblocca Italia.

Renzi, e quanti prima di lui hanno curato gli interessi dei petrolieri, non hanno ascoltato la nostra protesta. Solo la minaccia del referendum li ha fatti retrocedere su alcuni punti del loro piano “fossile”. Nel frattempo, il movimento contro le trivelle è cresciuto e oggi sfida la politica del governo.

Nove regioni hanno promosso un referendum per chiedere agli italiani da che parte stanno: con il mare, con le energie pulite, con la bellezza e l’integrità delle nostre coste e delle nostre acque, o con le lobby fossili. Dare una risposta chiara ora spetta a tutti noi.

Il governo sta tentando di scongiurare l’espressione del voto popolare con tutti i mezzi, arrivando a sprecare centinaia di milioni (che si sarebbero risparmiati con un Election Day) solo per scegliere la data di voto che più di ogni altra mette a rischio il quorum e comprime i tempi del confronto e dell’informazione.

È tempo di scegliere. Se non lo facciamo noi lo faranno i petrolieri.

L’ITALIA NON SI TRIVELLA. Dillo forte e chiaro il 17 aprile: VOTA SÌ.

Fonte: greenpeace.org

La moda sfrutta i bimbi siriani rifugiati in Turchia

E’ quanto rivela un report di Business and Human Rights Resource Centre (Bhrrc), un’organizzazione non profit che ha chiesto a 28 grandi aziende di svolgere dei controlli approfonditi sul personale impiegato. Ecco quali sono i marchi coinvolti e le loro posizioni a riguardo

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Le fabbriche turche di alcuni grandi marchi della moda internazionale sfruttano i bambini e i rifugiati siriani. A dirlo è un report di Business and Human Rights Resource Centre (Bhrrc), un’organizzazione non profit che ha chiesto a 28 grandi aziende di svolgere dei controlli approfonditi sul personale impiegato nei loro stabilimenti in Turchia. A rivelare la presenza di minori sfruttati sono stati i due grandi marchi Next e H&M. Primark e C&A hanno detto di avere identificato tra i lavoratori dei loro fornitori rifugiati siriani adulti. Altre case, come Adidas, Burberry, Nike e Puma, hanno detto di non aver trovato rifugiati siriani senza documenti nelle aziende da cui si riforniscono. Anche per questo, le Ong temono che il fenomeno sia ancora più diffuso, nonostante sia in discussione un accordo tra Unione Europea e Turchia per oltre 3 miliardi di euro di aiuti in cambio, tra le altre cose, di permessi di lavoro per gli immigrati siriani che, così, alleggerirebbero i flussi diretti verso il Vecchio Continente.

Il timore del Bhrrc è che il problema sia più esteso di quello emerso fino ad oggi. La Turchia è uno dei Paesi dove è forte la presenza di fabbriche che lavorano per i grandi marchi internazionali nel campo dell’abbigliamento. Sono 28 i brand alle quali l’organizzazione ha richiesto un’indagine approfondita sui propri stabilimenti e quelli dei propri fornitori. La risposta di soltanto due tra queste e l’elevato numero di profughi siriani presenti nel Paese, circa 2,5 milioni, fa pensare a Bhrrc che il fenomeno possa essere più vasto e diffuso. Next e H&M, dopo aver svolto i propri controlli, hanno comunque fatto sapere che si adopereranno per garantire a questi bambini un’educazione e supporto alle loro famiglie.

Tra le aziende coinvolte, sostiene il Guardian in una sua inchiesta, ci sarebbe anche il brand italiano Piazza Italia che, secondo quanto il quotidiano inglese, è stato contattato dal giornalista ma non ha voluto rilasciare commenti.

In Turchia questa situazione ha raggiunto numeri preoccupanti, si legge nel report, nonostante alcuni brand abbiano svolto dei controlli per assicurarsi che i rifugiati non siano “in fuga dal conflitto e sottoposti a condizioni lavorative di sfruttamento”. Secondo l’organizzazione sarebbero centinaia di migliaia i rifugiati siriani che lavorano con stipendi inferiori al salario minimo consentito, soprattutto in fattorie e aziende agricole nelle aree più remote del Paese. Esperti del Centre for Middle Eastern Strategic Studies (ORSAM) parlano di almeno 250 mila rifugiati siriani che stanno lavorando illegalmente in Turchia.

Bhrrc si dice preoccupata soprattutto perché “solo poche di queste aziende sembrano tenere in considerazione e monitorare problemi di questo tipo nelle fabbriche dei loro fornitori in Turchia”, tanto che spesso le ispezioni vengono preannunciate, permettendo ai responsabili di coprire le irregolarità: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.

Non è la prima volta che le vicende legate alla guerra civile siriana e le fabbriche di abiti turche si intrecciano. Secondo alcuni report, loStato Islamico controllerebbe circa il 75% dei campi di cotone siriani, con il prodotto finale che, come succedeva prima dello scoppio de conflitto, nel 2011, viene esportato in gran parte in Turchia, dove poi viene utilizzato per la produzione di abiti destinati ai negozi occidentali. Una situazione che permetterebbe agli uomini di Abu Bakr Al Baghdadi di arricchirsi grazie a un mercato che ha come cliente finale i cittadini europei e americani.

ilfattoquotidiano.it – 01 febbraio 2016

Coca Cola in ritirata dal Rajasthan: vincono i contadini

Da oltre 10 anni villaggi e comunità rurali si erano mobilitati contro il gruppo accusandolo di derubare le risorse idriche destinate alle campagne132602288-3fba3ef7-9c23-4dd7-ba54-835833b4794d

MILANO – Il Rajasthan indiano ferma la Coca Cola e costringe il colosso americano a battere in ritirata sospendendo l’imbottigliamento della bibita in tre impianti del Paese. Il gigante statunitense ha quindi ceduto alla pressioni che proseguono da oltre 10 anni durante i quali numerosi villaggi e comunità rurali in India si sono mobilitati, con proteste, manifestazioni, boicottaggi e liti legali, contro la Coca Cola e la Pepsi Cola, accusandole di derubare le risorse idriche destinate alle campagne, di usurpare le terre delle comunità contadine e di inquinare il suolo, attraverso il rilascio nel terreno di sostanze chimiche usate per il riutilizzo delle bottiglie.

In India l’agricoltura utilizza il 91% dell’acqua piovana, contro il 7% utilizzato dalle aree urbane e il 2% dall’industria. Gli impianti di imbottigliamento della Coca Cola (e della rivale Pepsi) sono accusati di consumare enormi quantità di acqua per la produzione delle bevande e il lavaggio delle bottiglie, a scapito proprio dei lavori agricoli della zona. Coca Cola ha sempre respinto le accuse, ma è stata anche costretta, nel corso di oltre un decennio, a ritirare molte domande di permessi per lo sfruttamento idrico delle falde acquifere.

Adesso la Hindustan Coca Cola ha annunciato di aver deciso la riorganizzazione operatività delle sue 24 società di imbottigliamento che operano in India e di aver deciso di chiudere l’impianto di Kaladera e altri due stabilmenti, uno nel Meghalaya e l’altro nell’Andhra Pradesh. Il gruppo sostiene che si tratti di impianti vecchi che verranno riutilizzati come magazzini. Nel 2005, la Coca Cola aveva già chiuso un impianto di imbottigliamento nel Kerala, sull’onda delle proteste delle comunità rurali, mentre nel Rajasthan sono almeno 25 mila i contadini che si sono battuti contro gli impianti americani e adesso accolgono con soddisfazione la decisione dell’azienda.

“Siamo contenti – dice Mahesh Yogi, uno dei capi della protesta contro il colosso Usa – L’impianto consumava il livello delle falde lasciandoci senz’acqua per irrigare i campi”. “Il vero problema – replica un portavoce della Coca Cola – è che gli sforzi degli ambientalisti dovrebbero includere dei passi per costringere gli agricoltori a usare l’acqua in modo più efficiente”.

 

fonte: repubblica.it – 12-02-2016

Commercio: con gli accordi TTIP i piccoli imprenditori dell’agroalimentare saranno schiacciati

Lo confermano 2 rapporti diffusi dal Dipartimento dell’agricoltura Usa. Non soltanto creerà difficoltà serie, ma tornerà a favore degli stessi Stati Uniti in maniera prepotente rispetto ai benefici dell’Europa unita

15_02_17-ttip_slideROMA  – Sono 2 studi quasi manicali americani, diffusi dalla Campagna StopTtip, ad affermare chiaramente i benefici che gli Usa potranno trarre dagli accordi sul Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (in inglese, Transatlantic Trade and Investment Partnership, appunto: Ttip). Benefici che – secondo gli analisti statunitensi – saranno enormemente inferiori per l’Ue, che comunque non accenna a ritrattare il Trattato, in corso dal 2013 e che quando diverrà operativo si creerà la più grande area di libero scambio, dal momento che l’Unione Europea e gli Stati Uniti rappresentano la metà del Pil di tutto il mondo  e un terzo del commercio globale.

I rapporti Usa che offendono l’Ue. Il 5 gennaio 2016, il Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti, sulle implicazioni del partenariato transatlantico (Ttip) per il settore agricolo, diffonde un approfondito documento dal quale emerge, nero su bianco, fino a che punto l’Unione Europea risentirà dalla firma dell’ accordo.

Tre sono i punti fondamentali. 

1) – Innanzi tutto, si prevede l’eliminazione delle sole barriere tariffarie e dei contingenti  tariffari di importazione (Trq), la qual cosa farà sì che le esportazioni agricole degli Stati Uniti verso l’Ue  aumenteranno di 5,1 miliardi di euro rispetto ai livelli del 2011, mentre quelle dell’UE  verso gli Usa crescerebbero di appena 0,7 miliardi di euro (le esportazioni  agricole UE diminuirebbero dello 0,25%).

2) – Il secondo scenario anticipa anche l’eliminazione delle barriere non tariffarie (Ntm): nel settore agricolo, le Nmt riguardano la sicurezza alimentare e se fossero eliminate, le esportazioni Usa crescerebbero di ulteriori 3,8 miliardi di euro,  mentre quelle UE aumenterebbero di 1,1 miliardi.

3) – Il terzo scenario analizza come tutto ciò influenzerebbe la domanda dei consumatori, i quali si orienterebbero sempre più ad acquistare prodotti locali piuttosto che importati, cancellando così qualsiasi guadagno derivante  dalla rimozione delle barriere tariffarie (anche se questo è il principale obiettivo  dichiarato del Ttip). Un secondo rapporto dello stesso Dipartimento americano, ribadisce i concetti.

Un massacro per l’Ue e per l’Italia. La Campagna StopTtip è tra le pochissime realtà d’Europa a battersi contro un trattato a cui i media sembrano non pensare. Ed è l’osservatorio della Campagna stessa ad aver diffuso i due rapporti americani. “Il ministero dell’Agricoltura Usa –  spiega Monica Di Sisto, portavoce della CampagnaStop Ttip  – è onesto nell’ammettere che, se con il Ttip vuole accelerare il commercio tra Usa e Ue per prodotti agricoli e cibo, bisogna eliminare non tanto dazi e problemi di dogana, ma le regole che ancora oggi ci proteggono, in Europa, da ormoni della crescita, residui di pesticidi, cibi biotech e tossicità simili. Pur facendolo, saranno gli Usa a guadagnarci in esportazioni, fino a 1000 volte più dei nostri Paesi, e in settori già massacrati per l’economia italiana come latte, carni rosse, frutta, verdura, olio.

Il fattpre “C“, cioè la coscienza dei consumatori. Gli imponenti flussi di prodotti e servizi in arrivo dagli Stati Uniti satureranno il mercato europeo, che per oltre l’80% dei produttori italiani, piccoli e medi, è l’unico mercato possibile, diminuendo ulteriormente le loro possibilità di sopravvivenza. Gli Usa, però, hanno anche valutato un terzo scenario: se tutti noi cittadini consumatori e le imprese che lavorano in qualità e quelle amministrazioni locali che legano la promozione dei loro territori e culture a prodotti sani e non massificati, non si fideranno delle nuove regole, non ci sarà da guadagnare per nessuno, perché tutti i prodotti a rischio verranno lasciati nei mercati e negli scaffali, e chi li produrrà verrà punito dalle scelte sbagliate dei Governi. Come Campagna StopTtip, lo chiamiamo “fattore C”: quello della coscienza di cittadini e consumatori, che si opporrà fino all’ultimo a politiche sbagliate come quelle del Ttip”.

Ttip: atto di masochismo per il nostro benessere generale. “Cornuti e mazziati – commenta Leonardo Becchetti, professore di Economia politica dell’Università Tor Vergata – lo studio dello US department for agriculture analizza cosa succederebbe se il Ttip eliminasse le “barriere non tariffarie” nell’interscambio agricolo tra Ue e Stati Uniti. Dall’analisi del rapporto emerge chiaramente che l’approvazione del Ttip non è solo un atto di masochismo economico per noi. Il problema è più sostanziale. Un accordo del genere non può essere valutato solo in termini di impatto economico, ma di benessere generale. Qualcuno si è preoccupato di valutare gli effetti sulla salute dei cittadini e sulle condizioni di lavoro di chi opera nel settore? Rischiamo ancora una volta di essere vittime del riduzionismo economicista che identifica la nostra felicità con la riduzione dei prezzi dei prodotti. Ma il benessere è un’altra cosa: dobbiamo imparare sempre di più che dietro un prezzo basso possono nascondersi insidie alla nostra salute alle condizioni di lavoro. Quanti euro di risparmio nel carrello della spesa valgono più rischi sulla salute e condizioni di lavoro più precarie?”.

di MARTA RIZZO – 27 gennaio 2016

fonte: repubblica.it

Migranti, se in Svizzera le spese di accoglienza le pagasse la Nestlé?

migranti1-630x419Fili invisibili. Proviamo ad unirli. La Société des Produits Nestlé S.A (nota più semplicemente come Nestlé) ha sede in Svizzera e paga le tasse nel paese, contribuendo in parte anche ai costi del sistema sociale. Supponiamo che la stessa società, vada incontro a una causa legale per “chiudere un occhio” sul presunto sfruttamento di lavoro minorile dei suoi fornitori nelle piantagioni di cacao della Costa d’Avorio. A questo punto chi dovrebbe pagare le spese di accoglienza dei migranti?

Facciamo un passo indietro. La Nestlè avrebbe provato a fermare la causa presso la Corte suprema americana (aver permesso ed essere complice dello sfruttamento di bambini nei campi della Costa d’Avorio) in cui è accusata di essere a conoscenza dell’impiego di manodopera minorile da parte degli agricoltori local. Avrebbe permesso e finanziato i produttori per avere la materia prima che serve a parecchie sue produzioni a un prezzo basso a causa di tale sfruttamento.

Abby McGilldell’International Labour Rights Forum(che ha originariamente introdotto la causa) ha affermato che la sua organizzazione “ha lottato per molto tempo per rendere trasparente la catena dei fornitori e per ristorare le vittime” dello sfruttamento. Citando uno studio finanziato dal Dipartimento del Lavoro Usa, del luglio scorso, McGill dice che ci sono 2,12 milioni di ragazzi nei campi di Costa d’Avorio e Ghana, in crescita netta rispetto al milione stimato per l’anno prima. Altri dati, relativi al2013, dicono che in media il coltivatore di cacao di quelle regioni ha sei bambini e che sopravvive grazie a un reddito reale di 40 centesimi al giorno.

Questi dati, ampiamente diffusi sulla stampa internazionale, possono essere accostati a questi altri che dicono che la Svizzera ha deciso di imporre a chi chiede accoglienza di consegnare fino a1.000 franchi svizzeri dei loro beni per pagare le spese. La Svizzera, come la Danimarca, impone ai rifugiati di consegnare fino a 1.000 franchi svizzeri (circa 900 euro) dei loro beni per pagare le spese di accoglienza.

Ricapitolando: mentre il Ceo di Nestlé, Paul Bulcke, nel 2013 ha intascato 12,6 milioni di franchi (238 volte i dipendenti), i minori ivoriani sono costretti a lavorare nelle piantagioni da cui proviene una buona parte degli introiti della Nestlè per integrare il misero salario familiare. Oppure, per le bambine, l’alternativa è la prostituzione. Ma allora, se questi bambini, da soli o accompagnati dai loro genitori, volessero andare in Svizzera in cerca di quella vita decente che non trovano nel loro paese, perché chiedere loro di privarsi di quel poco che hanno? Non hanno forse già contribuito ad arricchire – con  il loro lavoro – il paese verso cui sono diretti tramite i guadagni delle multinazionali che vi hanno sede? E se il governo svizzero non riesce a sostenere le spese per la loro accoglienza, perché non si rivolge direttamente alla Nestlé?

Niente di personale. Solo una favola che unisce fili invisibili.

Damiano Rizzi
Presidente Soleterre ONG e Tiziana vive ONLUS

fonte: ilfattoquotidiano.it – 16-01-2016